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di Danilo Giannese – repubblica.it
GOMA – Da buona congolese, Charlotte di solito ha il sorriso stampato sul volto e trasmette allegria a chiunque si fermi a parlare con lei. Ma da qualche settimana, il suo stato d’animo è segnato da timori, preoccupazioni e senso di precarietà. Colpa del clima di insicurezza, delle granate e degli assassini mirati che la stanno facendo da padrone a Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove le autorità hanno indetto il coprifuoco. “Qui è tornata la guerra, i ribelli sono in città e noi non sappiamo se per noi ci sarà un domani”, si sfoga la donna, che lavora come domestica nel compound di una Ong internazionale di base nella capitale del Nord Kivu.
La guerra dell’M23. La guerra a cui si riferisce Charlotte, e che ora sembra aver varcato anche le porte di Goma, è quella in corso ormai dallo scorso maggio tra l’esercito congolese (FARDC) e il gruppo ribelle M23 (Movimento del 23 marzo). Quest’ultimo si è formato in seguito a un nutrito movimento di defezione dalle forze armate di Kinshasa, da parte di elementi ruandofoni di etnia tutsi, fedeli al generale Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. I ribelli dell’M23 stanno mettendo a ferro e fuoco il Nord Kivu: incursioni e incendi nei villaggi, uccisioni, stupri di donne e reclutamento di bambini soldato, come testimoniato da Human Rights Watch 2 e altre organizzazioni non governative, hanno già provocato lo sfollamento di oltre 260 mila persone, che vanno ad aggiungersi ai circa 700 mila sfollati che si contano già in Nord Kivu, e hanno costretto 60 mila rifugiati a varcare i confini con Ruanda e Uganda in cerca di protezione.
L’Onu: nuove accuse al Ruanda. In un rapporto che sarà reso pubblico il mese prossimo, il Gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla RDC ha puntato il dito contro il Ruanda, accusando il Paese di Paul Kagame di essere direttamente responsabile delle violenze perpetrate dai ribelli del M23 in Nord Kivu. “Il Ruanda continua a violare l’embargo sulle armi dando supporto militare diretto ai ribelli del M23, favorendo il reclutamento di disertori delle FARDC e fornendo armi, munizioni, intelligence e consigli politici”, si legge nel rapporto che chiama in causa direttamente il Ministro della Difesa di Kigali, James Kabarebe.
Anche l’Uganda sul banco degli imputati. Il rapporto delle Nazioni Unite giunge a pochi mesi da un altro documento dello stesso Gruppo di esperti che aveva già portato alla luce il ruolo del Ruanda nella guerriglia del M23 all’est del Congo. Questa volta, tuttavia, sul banco degli imputati è finito anche l’Uganda. Il Paese di Yoweri Museveni, che pochi giorni fa ha celebrato i cinquant’anni dall’indipendenza, è stato infatti allo stesso modo accusato di sostenere i ribelli dell’M23 attraverso un supporto diretto in armi e uomini.
Kigali e Kampala negano. La reazione dei due Paesi confinanti con la RDC non si è ovviamente fatta attendere, al fine di negare ogni accusa proveniente dal gruppo di esperti delle Nazioni Unite. Il Ministro degli Esteri ruandese, Louise Mushikiwabo, per esempio, ha replicato in maniera ferma affermando che gli esperti dell’Onu non stanno facendo altro che “perseguire una precisa agenda politica, che non ha nulla a che fare con la ricerca delle vere cause alla base dei problemi nell’est della RDC”.
Il paradosso di New York. Se, tuttavia, da un lato le Nazioni Unite hanno associato ufficialmente il movimento ribelle dell’M23 a Ruanda e Uganda, dall’altro è di questi giorni la notizia del via libera del palazzo di Vetro all’entrata di Kigali nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu come membro non permanente per un periodo di tempo di due anni (2013 e 2014). Una notizia in controtendenza rispetto all’annuncio del 20 ottobre scorso da parte dell’Onu di voler applicare delle sanzioni nei confronti dei dirigenti del M23 e di tutti coloro che sostengono il gruppo attraverso la fornitura di armi.
La reazione di Human Rights Watch. All’idea che il Ruanda faccia parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha reagito in maniera molto forte l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch “Siamo molto delusi a causa dell’elezione del Ruanda a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza – si legge in un comunicato dell’organizzazione -. Il Ruanda sarà ora in grado di bloccare le sanzioni contri gli ufficiali ruandesi e tutte le altre iniziative per portare la pace nell’est della RDC. Noi pensiamo che questa è una situazione grave che potrà avere conseguenze negative sulla popolazione congolese”.
Non solo M23. L’M23, che ha ricominciato la stessa guerra che nel 2008 era portata avanti dal movimento tutsi ruandofono del CNDP (Congresso nazionale per la difesa del popolo) non è però il solo gruppo ribelle che sta creando scompiglio in Nord Kivu. L’attenzione che l’esercito di Kinshasa sta concedendo a questo movimento sta infatti lasciando campo libero a numerosi altri gruppi armati attivi nella zona, molti dei quali, peraltro, si starebbero alleando proprio con l’M23. Violenti scontri interetnici tra gruppi di etnia hutu e quelli della tribù hunde hanno infatti portato alla devastazione di alcuni campi di sfollati nelle aree più remote del territorio. In conseguenza, migliaia di famiglie di sfollati, che erano già state costrette in passato ad abbandonare i propri villaggi per sfuggire alle violenze, hanno dovuto lasciare anche le proprie abitazioni precarie nei campi.
Una goccia di speranza. Anche Hakizimana Buhwiriri, uno sfollato di 25 anni in sedia a rotelle, ha perso il buon umore, dopo che la sua casa in un campo di sfollati è stata bruciata da questi gruppi ribelli. Un’équipe del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati 3, tuttavia, ha preso a cuore il suo caso e ha ospitato nelle sue strutture il ragazzo e la sua famiglia, composta da madre e due fratellini. Ora, la famiglia è stata trasferita in un altro campo, lontano dai problemi interetnici che ne hanno causato la fuga. “Nel nuovo campo ora dobbiamo ricostruirci una vita e non posso più lavorare come calzolaio racconta Hakizimana – ma almeno qui ci sentiamo al sicuro e non dobbiamo temere per la nostra vita. E tutto questo grazie ad un gruppo di operatori umanitari che hanno voluto prendersi cura di noi”. Una piccola goccia di speranza nel mare di fuoco e sangue del Nord Kivu.
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