da repubblica.it
KINSHASA – Se l’Africa vive “in modalità pole pole“, (con calma e rassegnazione) l’Europa scivola subito sul cliché del “popolo frenato dalla sua storia”, oppure pensa alle “culture indigene prigioniere di un passato coloniale oppressivo”, non importa che sia belga, francese, britannico o portoghese. Insomma si tende a considerare che in quel continente l’esistenza delle persone sia inesorabilmente regolata da un “orologio interiore”, diverso dal “nostro”. Bene, forse in parte sarà anche vero, ma qui nella Repubblica Democratica del Congo, ultimo in tutte le classifiche possibili, dove inefficienza e corruzione si alimentano a vicenda e tutte e due sono i punti d’appoggio principali di un sistema di potere a democrazia dinastica, la “modalità pole pole” va osservata anche con sguardi differenti.
Le ragioni di un progetto. I primi a rendersene conto sono le donne e gli uomini di Coopi, come Cristian Zucchelli, ad esempio, che dal dicembre scorso è a capo di un progetto di sviluppo agricolo, succeduto a Giuseppe Busalacchi, oggi nella Repubblica Centrafricana, che aveva avviato il lavoro. Coopi, Ong italiana con sede a Milano, è qui dagli anni Settanta ed oggi è impegnata in un programma finanziato dall’Unione Europea e co-finanziato dalla Provincia di Trento, con una Ong congolese (Cadim) che fa da supporto locale. Si sta qui con un solo obiettivo: aumentare la produzione agricola e migliorare la filiera commerciale dei prodotti alimentari, per ridurne e stabilizzarne i prezzi sul mercato di Kinshasa, dopo averli coltivati nel clima umido e fertile sul Plateau de Bateké, l’altipiano ad un paio d’ore di macchina dalla capitale, da raggiungere lungo una delle poche strade percorribili, costruita – manco a dirlo – dai cinesi.
Verso il Plateau de Bateké. Si corre da Kinshasa verso il Plateau lungo un nastro d’asfalto, con qualche buca, ma tutto sommato decente. Ai margini della strada decine di camion fermi e stracolmi di generi alimentari. Vecchi Fiat o Mercedes, che uno si chiede come facciano ancora a muoversi, decomposti come sono, pericolosamente inclinati da una parte. Sotto, vedi sdraiati come cadaveri, tanti poveri Cristi, madidi di sudore, distrutti dalla fatica, imbrattati di grasso, che cercano di far ripartire quei catorci anneriti dall’olio bruciato. lavorano ore con pazienza e il bello è che spesso ci riescono pure. Ma c’è chi rimane bloccato sul bordo della strada per due, tre, quattro giorni, in attesa di semi assi, pneumatici o pastiglie per freni. I bivacchi che si formano, specie nel buio denso della notte, formano scenari suggestivi, persino rassicuranti.
L’incubo delle riparazioni. Ecco, tra le tante beghe quotidiane che gli uomini e le donne di Coopi devono affrontare, qui nell’area attorno a Kinshasa, c’è quella delle infinite cose che bisogna riparare. Sfide che si vincono raramente, quando si rompono automobili, trattori, camion – appunto – che servono per lavorare e trasportare i prodotti alimentari dei contadini nei villaggi sperduti lungo gli “assi” 1 e 2, cioè i settori cui il progetto di Coopi è dedicato. Riparare qualsiasi cosa diventa un’impresa “fantozziana”, capace di bloccare il lavoro per giorni, se non per settimane. Non c’è solo la difficoltà di far arrivare i pezzi di ricambio, c’è soprattutto l’inaffidabilità diffusa (e incolpevole), c’è l’impreparazione di meccanici e rivenditori, che non solo non sono quasi mai puntuali, ma come possono (colpevolmente) ti fregano.
I ritardi e le spese “incasellabili”. Ogni cosa, insomma, anche la più semplice, si rivela complicatissima e mette in seria difficoltà l’équipe di Coopi, che comunque deve poi rendere conto alla Commissione Europea di come spende i finanziamenti destinati al progetto. Nello schema dei resoconti, infatti, non è prevista la voce dove spiegare come sia stato possibile rimanere fermi per “X giorni” a causa del turbo di una Toyota rotto e che, dopo averlo portato a riparare, è tornato indietro esattamente come prima. Ci sono complessità che non si fanno incasellare.
I predatori del sottosuolo. La strada numero 1, che raggiunge il Plateau de Bateké, punta verso la parte sud orientale del Paese, la regione più rigogliosa e ricca, ma anche dove più alta e pericolosa è la tensione. E’ l’epicentro dove fioriscono di continuo gruppi “ribelli”, anche se tutti sanno che invece altro non sono che formazioni di delinquenti, armate e finanziate dai paesi confinanti, Rwanda e Uganda in primo luogo, oltre che aziende e corporazioni economiche straniere dell’estrazione mineraria, che affondano le mani nelle immense ricchezze custodite in quella parte del territorio congolese. Presenze tollerate e protette da un apparato politico-statale opaco, inamovibile, come un po’ tutti gli establishment che governano a modo loro le nazioni africane con sterminate risorse da depredare.
Le convulsioni di una metropoli. L’obiettivo del progetto di Coopi, dunque, è aumentare la disponibilità del cibo sulle bancarelle dei mercati di Kinshasa con i prodotti coltivati sul Plateau. Mercati brulicanti come in ogni metropoli africana come questa, dove ormai hanno trovato rifugio 12 milioni di congolesi. Che però potrebbero essere anche di più, o forse un po’ di meno. Purtroppo non si sa. Conoscerne davvero il numero, infatti, sarebbe già un segnale di “normaità” in un agglomerato umano informe, preda di improvvise convulsioni, come è avvenuto nel dicembre scorso, quando gruppi di non meglio precisati “ribelli” assaltarono la sede della Tv. La sparatoria con la polizia che ne seguì provocò una quarantina di morti.
La sfacciata corruzione dei poliziotti. Una città, Kinshasa appunto, stordita da un traffico delirante, da tassi d’inquinamento micidiali, un luogo senza confini urbanistici, dove regna quel caos tipico dei paesi senza Stato di Diritto e dove il rispetto delle norme minime della convivenza urbana non vengono neanche per sbaglio prese in considerazione. Dove le uniche regole vengono imposte da forze dell’ordine, corrotte e impunite, capaci di chiedere tangenti sfacciatamente e per qualsiasi cosa. Un incubo per milioni di persone che, non a caso, cercano supporto e rifugio tra le braccia delle innumerevoli sette religiose, che nascono come funghi, inventate e gestite da altrettanti faccendieri manipolatori, che si arricchiscono in un mare di speranze e ignoranza.
Il cibo che non è per tutti. Mangiare tutti i giorni con regolarità non è da tutti, nella capitale. I prezzi sono altissimi. La stessa manioca, principale alimento coltivato in quantità, dal 2009 ad oggi è aumentata del 60%; stessa cosa per la farina prodotta dalla manioca, per il mais, per il grano. Il progetto di Coopi tenta proprio di cambiare questa situazione, che produce livelli di malnutrizione acuta del 12% e di quella cronica di circa il 25%, quasi un quarto della popolazione. Si importa di tutto e da ogni parte. E questo costa caro. I supermercati ci sono, ma a frequentarli sono i pochi benestanti e gli espatriati bianchi. Alla capitale arriva cibo dai bacini di produzione agricola di Bandundu, dell’Equateur e del Bas-Congo. Ma non basta per tutti. E comunque acquistare il minimo per nutrirsi decentemente nei mercati di Kinshasa, per molti, per troppi, non è più possibile.
L’incontro con l’ambasciatore dell’UE. Numeri negativi che, d’altra parte, riguardano l’intero Paese e fanno del ruolo sussidiario delle Ong un ruolo difficilissimo nel faticoso lavoro dell’aiuto allo sviluppo. Numeri al centro della conversazione avuta con l’ambasciatore dell’Unione Europea nella RDC, Jean Michel Dumont. Il diplomatico francese, parlando dei progetti di Cooperazione in corso nella RDC, ha detto: “Tra i nostri settori di intervento c’è la governance di questo Paese. Prima di tutto c’è da mettere mano alle entrate di bilancio, che ora sono di appena 4 miliardi di dollari: una cifra irrisoria rispetto i quasi 68 milioni di abitanti”. Una popolazione, aggiungiamo noi, con una speranza di vita di 46 anni per gli uomini e di 49 per le donne e una mortalità infantile del 111 per mille. “C’è poi da riformare la polizia, la giustizia e l’esercito – ha detto ancora l’ambasciatore – per poter garantire una giustizia imparziale e accessibile a tutti i congolesi, un esercito in grado di difendere le frontiere della Repubblica e una polizia rispettosa dei diritti dei cittadini”.
Il peso della corruzione. E la corruzione? Lo chiediamo a lei signor ambasciatore, che rappresenta l’Unione Europea. “Siamo ben coscienti – ha risposto Dumont – delle difficoltà che incontrano le Ong e tutti quelli che lavorano qui per lo sviluppo di questo Paese. E una situazione molto difficile, in cui le imprese hanno il ruolo delle vittime. E’ una cultura che deve cambiare, tenendo conto che una gran parte della popolazione è senza lavoro e che i salari dei dipendenti statali sono molto bassi. Ecco perché occorre aumentare i salari dei funzionari, per evitare la corruzione”.
La scommessa di COOPI. Fino al 2000, Coopi aveva concentrato i suoi obiettivi nella regione del Kivu, nella parte orientale del Paese. Da allora in poi l’Ong ha volto lo sguardo anche in altre zone interessate dal conflitto, con programmi di intervento d’emergenza per le vittime della guerra, con progetti finanziati rivolti alla protezione dei bambini e all’appoggio psicologico delle persone vittime di violenze sessuali. Ma è qui a Kinshasa che sembra aver concentrato una buona parte delle sue energie, con un progetto di sviluppo, dunque non più legato all’emergenza della guerra, se possibile più difficile e complesso. Del resto, i cooperanti lo sanno bene: portare tende e medicinali a gente colpita da un conflitto armato è rischioso, faticoso, impegnativo, mediaticamente appagante. Ma incidere pazientemente sulle dinamiche economiche, politiche e culturali di un paese come la Repubblica Democratica del Congo, forse non ci si crederà, ma è cosa molto più difficile. Tuttavia, non impossibile.